INTERVISTA A IVANO FOSSATI (1999)
Ivano Fossati è un protagonista della canzone italiana fin dai primi
anni Settanta, quando giovanissimo guidò i Delirium sul palco di quel Festival di Sanremo che l'ha visto, poche settimane fa, celebratissimo ospite. Tra le due partecipazioni festivaliere ci
sono altre frequentazioni sanremesi quale illustre protagonista della grande scena d'autore coltivata e vezzeggiata dal Club Tenco; ci sono pagine indelebili della canzone italiana affidate a
Mina, Mia Martini, Patty Pravo, Loredana Berté, Fiorella Mannoia e altre celeberrime voci; ci sono le esperienze jazz vissute insieme a Enrico Rava e Trilok Gurtu; quelle folk con Una Ramos e
Riccardo Tesi; quelle trasversali con Tony Levin; ci sono diciotto produzioni discografiche (antologie e live compresi), musiche di scena e la collaborazione a quel capolavoro assoluto
rappresentato dall'ultimo disco di Fabrizio De André, Anime salve.
Incontriamo ora Ivano Fossati con dietro le spalle quasi un anno di
concerti, una partecipazione al Pinocchio tv di Gad Lerner e uno speciale dedicatogli dal secondo canale televisivo della RAI. Nello stesso giorno dell'intervista appaiono anche due sue
fotografie sul Corriere della Sera, una in relazione alla sua partecipazione sanremese e l'altra riguardo all'utilizzo della sua Canzone popolare come inno dell'Ulivo. La prima domanda
riguarda proprio i motivi di questa insolita sovraesposizione cui il musicista sembra prestarsi ultimamente.
È una mia precisa scelta. Non voglio esagerare, però ho considerato che
molti di noi musicisti, soprattutto fra i cantautori più apprezzati, si sono quasi completamente ritirati dai media. Hanno lasciato il campo libero proprio a ciò che consideriamo più
deteriore. Io stesso ho fatto un po come gli altri. Appena ho
percepito anche il minimo segnale di affermazione artistica, mi sono chiuso. Esattamente il contrario di quel che si dovrebbe fare. Non appena si potrebbe diventare in qualche misura utili agli
altri, paradossalmente ci si nasconde, ci si ritrae. Molti personaggi della cultura e dello spettacolo, scrittori, registi cinematografici, musicisti, quelli più bravi nello scrivere canzoni,
negli ultimi tempi, negli ultimi anni, si sono nascosti... C'è stata una chiusura sulla quale mi interrogo da qualche tempo.
Ma te lo chiedi in rapporto a precisi effetti che hai
riscontrato?
Sì. Proprio per ciò che vedo, che ho sotto agli occhi. Per esempio, il
desiderio che ho notato in tanti anni da parte del pubblico, dei ragazzi, di avere più vicini gli autori che amano, di saperne di più. Da adolescenti, da ragazzi, vogliamo avere vicino quelli che
consideriamo i nostri maestri, non sentirli lontani. Allora, almeno un paio di generazioni di ragazzi hanno desiderato e amato fortemente i cantautori, dai primissimi a quelli più recenti. Ma non
hanno praticamente avuto con loro alcun contatto diretto. Gli hanno tributato un grande rilievo, un enorme valore, ma sono stati ripagati col silenzio, da alcuni più che da altri, ma spesso
proprio da quelli più importanti e significativi. Quelli il cui lavoro riveste spesso anche un'importanza poetica, letteraria. Si sono lasciati interpretare solo attraverso le canzoni, ma come
persone non si sono spesi quasi per niente. Ora, andrebbe chiarito una volta per tutte che il lavoro di un artista è una cosa e l'uomo un'altra. Parlare solo attraverso le opere è comodo. Oggi
mi chiedo se in extremis non siamo in tempo a cambiare atteggiamento e recuperare una comunicazione più proficua.
Anche perché, dopo una fase di riflusso, negli ultimi anni i
cantautori sono tornati ad essere enormemente apprezzati e il loro lavoro enormemente diffuso.
Sì, ma senza voler confondere i due aspetti, della diffusione
discografica da una parte e della forza intellettuale e culturale dallaltra. Perché ci sono artisti nel mondo che hanno una forza dirompente sul pensiero, ma vendono pochissimi dischi. Basti
pensare a Leonard Cohen, che ha significato moltissimo senza mai raggiungere vette commerciali di qualche rilievo.
Io parlo proprio del silenzio che si accompagna allaffermazione
artistica. È molto comodo vivere con il plauso degli altri. Ed è chiaro che parlando meno si rischia meno. Però un pochino, forse, non solo oggi ma soprattutto negli anni Ottanta, sarebbe stato
necessario farlo. Ci siamo lasciati cullare in un silenzio davvero pericoloso, quando invece occorreva spendersi di più come persone. Senza per questo diventare dei barricaderi, né fare come
alcuni miei colleghi, che basta aprire il rubinetto e vengon fuori. A volte basta semplicemente esserci. Cercare di usare i mezzi di comunicazione per far valere la propria intelligenza, invece
della propria immagine. Quando ci chiediamo perché la televisione è così brutta (ed è vero, non è solo brutta: è orribile); oppure perché le classifiche editoriali non sono così dissimili da
quelle discografiche già tanto banali, allora mi chiedo perché quelli che possono dire una parola sensata non parlano un po di più? Quelli più autorevoli e capaci dovrebbero smettere di lasciare
il campo ai selvaggi, perché saper davvero raccontare, comunicare i propri pensieri, non le ideologie, rappresenta una forza irresistibile. Negli ultimi anni, per citare una persona che fa il mio
stesso lavoro, avrei molto più volentieri visto Paolo Conte in televisione, sui media, invece di tanti altri. Oppure Sebastiano Vassalli, visto di sfuggita in una rara occasione, per scoprire che
parla in un modo così apprezzabile. Avrei voluto vedere loro, al posto di quei soliti quattro insopportabili frequentatori di talk-show... Mentre quelli davvero capaci di parlare, schifati dal
panorama si rinchiudevano in casa.
Alcuni affermano però che la televisione non è un mezzo neutro, che si
presti poco a trasmettere lintelligenza anziché limmagine...
Certo, non sempre è adatta a qualunque messaggio. Però è un mezzo
talmente forte che non va lasciato in mano ad altri. Non dobbiamo rinunciare a farne un uso positivo. Dobbiamo chiedere garanzie, certo. Non c''è abitudine a dare garanzie a chi partecipa alle
trasmissioni, per esempio. La televisione è abituata a trattare tutti allo stesso modo, come su un nastro che scorre uniforme. Invece bisogna pretendere, chiedere, esigere garanzie precise.
Questo non cambierà la televisione generalista, sicuramente, che è ormai condannata. È stata come una specie di prove tecniche di trasmissione. Ma la TV digitale, quella più selettiva,
settoriale, rappresenta un rischio ancora maggiore. La storia della televisione inizia realmente con i canali tematici che saranno più pericolosi ancora, perché la gente li considera più
autorevoli della televisione generalista che, tutto sommato, nessuno prende più troppo sul serio.
Nel tuo lavoro di musicista c'è stata a un certo punto una svolta
importante, circa dodici anni fa, in corrispondenza delluscita di La pianta del tè. Cosa accadde davvero con la pubblicazione di quel disco?
Io credo che l'attività artistica proceda per intuizioni, in maniera
discreta e non lineare. A scalini. Ogni tanto può nascere un'intuizione, piccola o grande che sia, e ti fa compiere un salto in avanti. La pianta del tè corrisponde a una di queste intuizioni.
Forse la cosa più significativa per me non è stato scrivere il materiale di quel disco, quanto capire ciò che sarebbe accaduto in seguito. Dopo è cambiato tutto. Dal 1988 in poi è cambiato
completamente latteggiamento degli altri nei miei confronti. È stato come una porta che si è aperta all'improvviso.
Quel disco ti ha forse messo più in relazione con la musica europea,
più internazionale, rispetto al passato. Nonostante tu sia sempre stato, fra i cantautori, forse quello meno provinciale in termini musicali
.
In quel disco c'era intanto musica composta, diversamente dai
precedenti. C'erano molti colori etnici, quando di world music si parlava ancora molto poco. Era un progetto piuttosto ricco. Ma in fondo non si è trattato di un successo poi così travolgente. È
stato difficile gestire il seguito di quel disco, perché si è trattato di un successo da proteggere, un consenso che andava tenuto per mano. Muovendosi, occorreva che un filo fosse comunque
rintracciabile attraverso i lavori successivi. Anche cambiando, certo, spiazzando un po' gli ascoltatori, magari. Come in certi giochi enigmistici in cui le difficoltà crescono gradualmente.
Occorreva fare in modo, però, che il pubblico avesse sempre la possibilità di seguire il cammino senza rischiare di perdersi. Col tempo ho capito di poter osare. Ho imparato a conoscere meglio il
mio pubblico. E so di poterlo ritrovare comunque, anche dopo un attimo di iniziale smarrimento all'ascolto di qualcosa meno tradizionale del solito.
Stai proprio per affrontare una nuova svolta artistica di questo
tipo
.
Sì. Sono impegnato in un lavoro doppio: due dischi distinti: uno prosegue
sulla linea di Macramè, rappresenta il passo successivo; l'altro è invece un disco di composizioni strumentali, per pianoforte e altri strumenti tradizionali. Si tratta di musica scritta, che io
definisco di derivazione novecentesca, perché tiene conto dell'esperienza musicale tanto articolata del nostro secolo.
Quale tipo di scrittura hai adottato?
C'è un punto d'incontro fra la scrittura del Novecento tonale o
neotonale e il jazz, che è ben rappresentato da un musicista come Henry Threadgill, tanto per dare un riferimento storico. In questo mio lavoro c'è uno spazio per l'improvvisazione, alcuni
riferimenti alla musica jazz piuttosto evidenti, che trovo assolutamente necessari.
Che genere di musicisti pensi di coinvolgere?
Amo i musicisti dotati di forte preparazione e nello stesso tempo capaci
della più assoluta incoscienza, in grado di gettarsi a capofitto in un nuovo progetto. Sono queste le caratteristiche dei musicisti a cui penso per questa nuova avventura.
Non si tratterà dunque di un episodio isolato.
No. Penso di condurre una sorta di attività parallela a quella già nota.
È un nuovo rischio che voglio correre. Inizialmente i due nuovi dischi usciranno in contemporanea, per la stessa etichetta, la Columbia. Voglio che sia chiara la identica matrice dei due lavori.
Sono uno la continuazione dell'altro. Più tardi le due strade avranno tempi e modi propri, parallele ma separate. Chi ama le canzoni potrà comunque continuare ad acquistare il solo disco di
canzoni. Chi vuole rischiare un po' di più avrà questa seconda possibilità.
Cosa trovi più difficile nel tuo lavoro, definire la struttura di una
brano musicale o completare la scrittura di un testo?
Di sicuro completare un testo. Perché la musica contiene una certa dose
di ambiguità, esprime significati che non appartengono solo all'autore, ma pure all'ascoltatore. Una stessa sequenza di accordi può piacere anche rappresentando sensazioni diverse per un
ascoltatore rispetto a un altro. Il testo invece inchioda l'autore a un senso preciso, a una chiara responsabilità. Ha un significato univoco. Il testo è la ragione stessa della canzone. Quando
scrivo una canzone, devo partire da una motivazione che devo trasmettere all'ascoltatore per cercare di incontrare il suo motivo di apprezzamento.
Ci sono anche problemi di metrica che limitano maggiormente la
scrittura dei testi
Sono problemi che ho risolto scardinando completamente la metrica. Non mi
interessa rispettare alcuna metrica. Mi conforta ciò che disse Eugenio Montale, che all'inizio del suo lavoro avrebbe volentieri preso la lingua italiana per il collo. L'avrebbe strozzata, pur
di ottenerne un diverso risultato. Questo bisogna fare. Senza necessariamente giungere alle vette di Montale, bisogna comunque forzare la lingua al proprio bisogno.
Ciò che importa è riuscire a definire il proprio stile, descriversi
come autore e come persona in modo originale, autentico. Cosa che pochi sanno fare davvero bene. Penso a te, a Conte, a De Andrè e pochi altri.
Fabrizio era un po più per bene di me. Grandissimo com'era,
lavorava però entro binari molto stretti, si dava limiti molto rigidi, più vincoli. Una sua grandissima qualità, di quelle private, forse non così note, era quella di porsi continuamente il
problema della responsabilità nei confronti degli ascoltatori: dover scrivere cose sensate, in modo verosimile, sapendo che qualcuno potrà credere a ciò che canti, è una cosa molto bella che ho
imparato da lui. La sapevo, ma da lui l'ho imparata meglio. Ho capito quanto davvero sia importante l'uso di un aggettivo invece di un altro, una volta che sono in tanti ad ascoltarti e a
credere in ciò che dici. All'inizio mi veniva quasi da chiedermi perché Fabrizio si ponesse tanti problemi...
Com'è stata la collaborazione fra voi due per il disco Anime salve?
Le collaborazioni fra individualità artistiche così marcate sono sempre piuttosto difficili.
Inizialmente non è stato tanto difficile, per quanto riguarda la
scrittura dei brani. Non proprio una passeggiata, ma comunque un lavoro abbastanza tranquillo. A un certo punto però, ci siamo accorti che la sua idea di realizzazione del disco era diversa dalla
mia. Sul come vestire le canzoni, non ci siamo trovati d'accordo. Così quello che doveva inizialmente uscire come un disco comune, è stato poi pubblicato come un disco di
Fabrizio.
Eppure Anime salve mi è parso un disco piuttosto vicino alle tue
produzioni che non ai precedenti dischi di De Andrè.
Ma a Fabrizio piaceva usare più strumenti acustici, a corda,
mediterranei, nord africani.
Io mi sento molto più europeo, un po' più tecnologico.
Sì. Questo è ancora più evidente nei tuoi concerti. Paolo Conte ha
affermato di non voler utilizzare archi sintetici perché fanno tanto musica leggera. E infatti suona con un'orchestra di una decina di elementi e non usa nessun tipo di tastiera elettronica.
Tu invece ne fai un uso piuttosto marcato.
A me piace quel senso di protezione che certi suoni possono darmi sul
palco. Del resto fanno parte del mio gusto personale, questa presenza, questa ricchezza armonica. È un tipo di abbondanza che solo gli strumenti elettronici possono dare, utilizzando l'organico
che io utilizzo. Però non voglio lavorare con formazioni più grandi. Se potessi girerei addirittura in trio. E capisco che possa sembrare contraddittorio, vista la mia predilezione per un suono
forte, robusto. Ma preferisco che traspaia questa specie di attualità timbrica, non solo musicale, ma proprio della grana del suono.
Hai mai conosciuto quella specie di irritazione che si può provare
quando qualcuno ha fatto una cosa molto bella, che avremmo voluto fare noi?
Più che della scrittura musicale o poetica, a volte sono magari un po'
invidioso delle intuizioni. Aver pensato un determinato concetto, un particolare modo di esprimere un pensiero. In questo caso sì, che ci può essere competizione. Altro che Festival di Sanremo!
Arrivare per primo a quella particolare intuizione
... Ce ne sono alcune che ho avuto per primo. Magari piccole, non importa. Sono intuizioni di cui sono orgoglioso. Sono quelle intuizioni che
danno valore anche alla poesia, piccole espressioni geniali capaci di offrire un nuovo punto di vista sulle cose, sui sentimenti. Ciò che non succede con i testi di uno come Mogol, per esempio,
che descrivono molto bene l'esistente, senza essere capaci di cambiarci la vita.
Lui fa un altro mestiere. Non è come cercare pensieri nuovi, ma
accontentarsi di sottolineare i pensieri di tutti
. Questo fa innamorare le masse. Una buona esposizione del senso comune. A me sembra più importante cercare nuovi punti di vista. E per far
questo in una canzone, non puoi lavorare come un filosofo o come un poeta. Devi mediare almeno due volte, perché nelle canzoni non puoi scrivere a quella stessa temperatura. Devi come raffreddare
i concetti, cristallizzarli. Far scendere la temperatura del pensiero è difficile almeno quanto farla salire, forse di più. Quando vengono scritte cose del genere, dove si intuisce quest'anima,
questa fiamma particolare, com'è successo nel caso di Conte, di De Gregori e naturalmente di Fabrizio De Andrè, è subito chiaro quanto sforzo viene messo nel prendere un pensiero alto, anche
altissimo, e ridurlo a poche battute. Una fatica eccezionale.
Quando lavoravamo alla scrittura di Anime salve, c'era una canzone che
si chiama Khorakhané in cui Fabrizio voleva assolutamente esprimere la vanità del giudizio degli uomini, quando finalmente gli venne quella meravigliosa intuizione: lo può dire soltanto chi sa
di raccogliere in bocca / il punto di vista di Dio. Un'intuizione grandissima, un finale davvero dirompente. Fabrizio ha dovuto ridurre il pensiero originario a poche parole, ma si tratta di un
pensiero altissimo. Il nostro mestiere impone questa sinteticità assoluta, talvolta dolorosa. Laddove un filosofo potrebbe trattare il problema a lungo, spiegarsi, sviscerare.
Fabrizio diceva spesso che noi siamo dei saltimbanchi. Ma ci si aspetta da noi lo stesso risultato dei poeti, dei filosofi.
Lo stesso effetto.
Eppure oggi, anche per la rinuncia al pensiero sistematico della
tradizione, ci sono filosofi che privilegiano proprio la poesia, come strumento d'indagine e d'interpretazione della realtà. La sintesi, ma anche la frammentarietà sono diventate condizione
usuale del pensiero. E l'importanza di autori come te, De Andrè o Conte mostra proprio in quale considerazione sia tenuto il vostro lavoro.
La sintesi sta vicino al silenzio. Quando qualcuno ha il dono di saper
dire molto in poco spazio, è una vera benedizione. Questo è certo il motivo per cui alcuni poeti sono andati oltre rispetto a tanti filosofi. Quando c'è genialità anche i limiti producono
risultati ineguagliabili.
Per Strawinsky, la libertà del compositore consisteva proprio nel
potersi dare dei limiti.
Sì. Saper lavorare con ciò che si ha a disposizione è molto importante.
Non ho mai troppo apprezzato la creatività di chi ama dispiegare grandi mezzi. E sono anche un grande ammiratore di quei musicisti jazz degli anni Sessanta che si costruivano i propri strumenti,
come Roland Kirk. Una figura davvero importante nella storia del jazz. Questo è il genere di musicista che preferisco. È lo stesso motivo per cui mi piace suonare in quintetto: cerco di tirar
fuori il massimo da ognuno, invece di far suonare poco a tanti musicisti. Così ho la certezza che cinque musicisti sul palco stanno veramente dando il massimo.
Quali strumenti usi per comporre, solo il
pianoforte?
Sì, lavoro col pianoforte. Non sono un tastierista, e non conosco bene
gli altri strumenti. Il pianoforte è stato il primo strumento a cui mi sono dedicato, anche se in passato l'ho temporaneamente abbandonato per la chitarra o il flauto. E oggi ha sempre meno
senso che io mi dedichi ad altri strumenti. Inizio ogni nuovo lavoro fissando al pianoforte le prime idee, senza altri passaggi intermedi. Non faccio provini o cose del genere. Non ho uno studio
di registrazione privato. Prendo tanti appunti, e quando ho tutto chiaro in mente, sono pronto per la realizzazione del disco.
Ti piace lavorare a lungo in studio di
registrazione?
No, per nulla. Se potessi ne farei a meno. Cerco di arrivare in studio
avendo già definito il progetto al meglio. Invece di nastri registrati arrivo con libroni pieni di appunti, disegni, parti musicali vere e proprie. È una preparazione puntigliosa che dura due o
tre anni. Negli appunti ci sono anche disegni, fotografie... Tutto ciò che serve a comunicare ai musicisti le atmosfere, le sensazioni che voglio nella musica.
I tuoi interessi musicali sono tutt'altro che ristretti alla tua
attività di cantautore.
Mi sembra normale guardarsi intorno. Ci sono gli insegnamenti di grandi
maestri che è possibile utilizzare anche nella musica più leggera. Non possono certo nuocere. Intanto questo rende il mio mestiere più divertente. Se dovessi immaginarmi condannato a stare per
sempre allo stesso modo dietro lo stesso strumento, mi sentirei davvero perso...
Il pianoforte è certamente uno strumento classico, ma da Cage in avanti,
considerando molti altri innovatori successivi, si è sempre cercato di forzarlo oltre i limiti tradizionali. Io stesso amo talvolta, in particolari concerti, suonare un pianoforte preparato,
nello stesso modo inventato da John Cage, inserendo oggetti di varia natura tra le corde dello strumento. Il pianoforte è forse uno degli strumenti il cui suono si presta di più a essere
modificato. E comunque sono proprio gli strumenti tradizionali che si offrono maggiormente a possibili forzature. Uno strumento come la chitarra elettrica invece, che ognuno ha potuto
personalizzare fino alla metà degli anni Settanta, oggi è diventato uno standard assoluto, perché qualunque ragazzino è in grado di produrre lidentico suono impiegato dal grande chitarrista di
turno.
I dischi di musica acustica sono anche quelli che invecchiano meno,
che è possibile ascoltare dopo anni in modo ancora del tutto naturale e soddisfacente.
Non c'è dubbio. Ascolto ancora volentieri molte registrazioni degli anni
Sessanta che suonano in modo meraviglioso. E pensa a come possiamo ancora utilizzare il violoncello che è uno strumento del Settecento... Ha ragione Beppe Grillo, quando dice che oggi non
sostituiamo più il vecchio con il nuovo, ma solo il nuovo con il nuovissimo
.
L'intervista è terminata. Ivano Fossati deve tornare in sala per le
prove. In ultimo mi racconta d'esser tornato recentemente nella casa dove insieme a De Andrè aveva trascorso circa tre mesi alla preparazione di Anime salve, e di essere rimasto profondamente
colpito dalla percezione quasi intollerabile dell'assenza di Fabrizio. Così la conversazione si chiude nella profonda inquietudine di questo ricordo, nell'incapacità di poter aggiungere altro
al silenzio cui le ultime parole di Ivano restano come sospese.